Storia senza rimedio 

“E’ un mese che tenta di portarmi a letto e non so più come pararmi.” lei disse.
“Stiamo parlando del tuo capo?” chiesi, più che altro per dire qualcosa, mentre pensavo ad altro, di lei, che a letto col suo capo c’era già stata, per farlo contento e tirare a campare. Conoscevo le infamie di lui, da tempo, anche se da poco s’era comperato una laurea che gli serviva per avanzare nella carriera, eppure mi avvelenavano di più le miserie di lei, che pur di essere adorata dai più li accoglieva, anche quando doveva subirne la rivoltante tracotanza.
“Figurati che ho dovuto inventarmi una malattia venerea, per tenerlo a bada per un po’.” lei disse, in modo naturale, quasi parlasse della sua routine quotidiana, delle figlie che crescevano, del marito che leccava sempre, precedendola, la strada su cui lei doveva passare.
“Non si arrenderà così facilmente.” io dissi.
“Tu dici?”
“E tu perché me lo dici?” le chiesi, guardandole gli anelli, numerosi, alle mani, meno quello che le avevo regalato io.
“In che senso, Daniele?”
Nel senso che stava vantando, come fosse un encomio o una medaglia al merito, la tresca sessuale col supremo, e lo faceva da dietro a quei suoi occhi, quel taglio di conchiglia in cui il suo sguardo mi aveva risucchiato, dieci anni prima.
Tutto sembrava uguale, in quelle stanze in cui ogni vetrata fronteggiava il palazzo bianco, con quella scritta insulsa dell’Innominabile, “un popolo di poeti, di santi, di eroi, di trasvolatori, di trasmigratori….”. Di evasori recidivi e di opinionisti evasivi, di addestrati qualunquisti e di sinistri passatisti.
“Magari vorrai un consiglio da me.” osservai, ma lei già scuoteva delicatamente la testa, producendo il suo sorriso perfetto, semplificante. Lo stesso sorriso di dieci anni prima, che mi aveva dato il coraggio di prenderle le mani e invitarla ad uscire, ad andare dentro il profumo dell’estate, lasciando cadere di lato i doveri, le scadenze, le sue piccole banalità. Dammi le mani e vieni con me a toccare il tuo cuore nel mio, vieni a guardare la parte di te che non conosci, il lato nascosto alla tua fretta, alle tue scontate consapevolezze di mammina leggiadra. Vieni nella strada in ombra della tua vita e scopri lo stupore di essere descritta come nessun altro può fare, e baciata piano, dovunque il tuo corpo nasconda un fremito diverso, che aspetta da tempo di essere dischiuso e di aggiungere luce al taglio dei tuoi occhi.
“Le cose stanno così, ormai.” lei disse, facendo tintinnare, con un gesto di ineluttabilità, i ciondoli del suo bracciale.
“Potresti sempre cambiare ufficio.” suggerii.
“Per andare dove, Daniele?”
“Conosci l’inglese alla perfezione, lo parli e lo scrivi. Molto meglio che rispondere al telefono e fissare appuntamenti nella sua agenda.”
Stavolta si rabbuiò, poiché tutto si poteva, con lei, meno che essere diretti.
“Ma in fondo è un’ipotesi, Silvia. Anche qui troverai una soluzione, vedrai.”
Sapevo come rabbonirla, anche quando le avevo strappato un minuto in più nel letto del motel, raccontandole le mie storie veniali, che per qualche momento si allargavano nella sua attenzione, prendendone possesso, perché guardasse soltanto la sé stessa a cui appartenevo e ne celebrasse il prodigio.
“E tu, che mi racconti di nuovo?” chiese, con uno scatto della testa, quasi fossi resuscitato all’improvviso per lei, accanto a lei.
Che non ti ho dimenticato, anche se sono abile a tener chiusa la porta dell’amore che ti porto e che non ho mai saputo spiegarmi, né mai ancorare a una tua virtù configurabile, a una sensibilità politica o morale, o soltanto alla cadenza del vivere, al tuo guardare gli altri, me compreso, dimenticando di guardare te stessa, fosse solo per un attimo.
“Niente di che.” dissi invece, sfiorandole una guancia con la punta dell’indice.
Sorrise, ripescando entro sé le antiche certezze che mi riguardavano.
“Sempre così tenebroso. Chissà quante donne….”
Sempre così pieno di passato, dell’impossibilità di trascinare tutto me stesso, senza carichi aggiunti, da un’altra parte. Quello che tu sai fare così bene, diversa da ciò che eri ieri, un anno fa, dieci anni fa, quando i tuoi seni piccoli, sotto quella maglietta rosa, mi incutevano dolcezza, quando le tue mani mi toccavano dopo l’orgasmo, facendomi ancora sussultare, come un tarantolato, o un derviscio straziato dall’ultimo volteggio della sua danza turbinante.
“Le donne? Pochissime, e sempre una alla volta.” dissi, guardandole ancora le mani.
E tutto terminò, senza altre parole. Nemmeno il suo telefono squillò, né la porta si aprì, portando annunci o incombenze.
Vive in silenzio il dio che ha purgato questa terra con sale e cenere, mi dissi, citando Cormac McCarty. A lei tuttavia piacevano altre storie, col finale cantato, al taglio di una torta americana “Sweet roses”. Lasciai che mi risuonassero sulla pelle, solcando brividi di mestizia e vergogna, le parole in falsetto che a volte cantava, caramellando scenari laccati.
You kiss me once
I’ll kiss you twice
And as I gaze in to your eyes
I realize it’s paradise
O magari era l’inferno, entro il quale le corde dell’attesa mi tenevano sospeso per sempre fra la nausea e la devozione.